Becciafavole... cioè?


Era consuetudine un tempo, specialmente nelle campagne, riunirsi la sera per vegliare. Non c’erano televisori o giornali, quindi la trasmissione di notizie, racconti, pettegolezzi avveniva di bocca in bocca. Ci si ritrovava davanti al camino o nella stalla, con i familiari, i vicini di casa, gli amici o qualche visitatore occasionale.
Nelle veglie, oltre a dividersi il vino e qualcosa da mangiare, oltre a recitare preghiere, oltre a filare la lana o arrotare un falcetto, si raccontavano storie, tutte legate a questo mondo, in una terra di mezzo tra il magico e il consolatorio.
Il dialetto si tramandava così, non era una lingua cristallizzata dalle regole e per questo fluida, vivace, spesso sorprendente. Era la parlata del mercato, dell’osteria, dell’aia. La tramandavano i predicatori, i viandanti, i pellegrini, i mercanti, i soldati, i cantastorie, gli operai dei campi.
Se si escludono gli aristocratici e gli ecclesiastici, la gran parte della popolazione si esprimeva nel dialetto: con i proverbi, i modi di dire, gli indovinelli, le orazioni, le filastrocche, gli stornelli, le ninne nanne, i giochi, le serenate…
Le becciafavole (dette anche brecciafavole o picciafavole) erano tipiche, oltre che nell'Alta Vallata del Cesano, nel cagliese e anche nella vicina Umbria, da Gualdo a Gubbio fino a Perugia. Erano brevi racconti, favolette, storielle umoristiche, a volte inventate a volte no, fatte per intrattenere, divertire, a volte spaventare. La gran parte delle becciafavole di questa raccolta sono inventate, ma tutte si rifanno a un canovaccio comune in molte parti d’Italia e perfino all’estero.
Spesso c’è un villano furbo, o uno sciocco, un povero che poi diventa ricco o uno sfortunato che riesce a sposare la bella. Il superbo viene punito, l’umile premiato. Sono elementi comuni che ritroviamo anche in altre culture, in altre forme di creatività come la favolistica, la canzone folkloristica, fino al cinema popolare.
Non essendo una lingua codificata, scrivere in dialetto è alquanto difficile. Il pergolese poi è una parlata smozzicata, con fonemi non sempre chiari, ma per facilitarne la lettura ho deciso di scrivere quasi per intero le parole e gli enunciati. Altra difficoltà è stata il non poter utilizzare, come di solito avviene per i racconti,  il passato remoto (estraneo al nostro dialetto).
Al di là di questi trascurabili inconvenienti, scrivere queste becciafavole è stata per me, tutto sommato, una piacevole occupazione.

Marco Sensi